È una corsa a perdifiato sulla fascia. L’immagine di un amico d’infanzia che non vedevi da tempo e sei felice di incontrare di nuovo. È ogni stilla di energia, gettata su un prato verde, in ragione di un soccorso ai compagni. È il pensiero felice di giorni che sono andati via, mentre eravamo consapevoli di vivere un periodo magnifico, capace di invadere la nostra esistenza oltre il calcio. Oltre quel pallone che spesso rotolava dalla parte da noi desiderata. Simone Rizzato è tutto questo. È molto più di questo. Nessuno, più di lui, ha rappresentato la voglia, il temperamento, la pervicacia, l’umiltà, la consapevolezza di undici maglie granata che andavano in giro per l’Italia e ci inorgoglivano. “Era arrivato il momento di smettere – mi dice al telefono – anche se ancora corro e mi diverto. Nell’ultima stagione, ho addirittura giocato da mezzala sinistra, in Eccellenza. Correvo di più rispetto a quando facevo il terzino (ride, ndr). Ma ho capito che era giunto l’attimo di cambiare ruolo davvero. Vorrei rimanere nel calcio, sto prendendo in esame diverse ipotesi. Vedremo”.
Già, il terzino che era. Meraviglioso interprete di quel pezzo di campo che lambisce la linea laterale sinistra, pronto a stringere verso il centro dell’area con il pallone dall’altro lato. Sembrava dipinto per Trapani e per il Trapani. Per quel Trapani. “Rimarrò per sempre legato a questa città, mio figlio Mattia ha vissuto a Trapani i primi quattro anni della sua vita: quando riguardo i video del tempo, mi viene da ridere, perché è cresciuto con l’accento trapanese”. La telefonata vola via come una chiacchierata fra due vecchi amici. E mentre parla, e lo ascolto, mi viene in mente un pomeriggio in cui avevo un appuntamento con lui in televisione, per una lunga intervista. Arrivò negli studi di Telesud con i suoi due figli (Mattia e Lavinia), ancora piccoli. Lo accompagnava Luca Nizzetto, che dietro le telecamere lo aiutò a tenere buoni i bimbi. E mentre si sedeva al mio fianco, si scusava, confessando: “Mia moglie è stanchissima. È sempre sola con loro. Ho accettato di venire qui da te, ma non potevo lasciarla ancora senza aiuto”. Il Trapani di allora era anche questo: una cifra di umanità difficile da raccontare e stringere nel recinto delle parole. Dentro e fuori dal campo. “Trapani non era mai stata in serie B – racconta – e non sapevo che atmosfera avrei trovato. Fu una crescita di entusiasmo della città che ci contagiò. Abbiamo scritto la storia, ricevendo un apporto dai tifosi che mai dimenticherò. Il primo anno, la salvezza comoda. Il secondo, la stessa salvezza arrivò con un maggiore fatica. Il terzo, sappiamo tutti che cosa stavamo combinando”.
Esatto: che cosa stavamo combinando. Che cosa stavate combinando, Simone. Viene un tuffo allo stomaco a rivangare quei mesi. Erano gli stessi di quell’intervista televisiva con il baby-sitting di Luca Nizzetto. “Era appena iniziato il girone di ritorno, e arrivò il Cagliari al Provinciale. Una squadra costruita per stravincere e tornare subito in serie A. Due a zero avanti, ci raggiunsero con un gol di Joao Pedro nel finale, e dopo che ci furono negati due rigori evidenti. Quel giorno cambiò tutto: invece di piegare le gambe, di rattristarci, quella partita fu la stura per capire la nostra forza. Potevamo competere con chiunque”. E poi, quel fenomeno di Bruno Petkovic. “Ci siamo messi tutti a correre il doppio, perché sapevamo che lui l’avrebbe passata. Un talento straordinario”. Detto e ripetuto mille volte, ma giova ricordarlo: in quel gruppo fantastico, Petkovic costituì il valore aggiunto che consentì a quel Trapani di volare. “Simo – gli dico – vatti a calcolare la classifica parziale del girone di ritorno di quel campionato. Siamo primi con undici punti di vantaggio sulla seconda…”. “Noooo – mi risponde – eppure sai che questi numeri non li conoscevo? Però voglio dirti una cosa su Petkovic: gli volevamo bene. E gli volevamo bene fuori dal campo. Questo fu un nostro segreto”. Che condusse all’allineamento dei pianeti. La vittoria all’ultima giornata di Bari, la semifinale con lo Spezia. La finale. “In dieci dopo venti minuti. Peccato. Quello era un grande Pescara. Il meccanismo perfetto andò in sofferenza in quell’istante”.
Poi, quello che tutti sappiamo. Struggente e meraviglioso. Petkovic che vuole rimanere a dormire allo stadio e un città che applaude in lacrime. La telefonata è alla fine e ci salutiamo. “Ti abbraccio e ti voglio bene, Fabio”. “Anch’io, Simo”. Click. Che fortuna aver vissuto tutto questo, penso dentro di me…