Mi viene da urlare. Da gridare al mondo intero che andare in giro a tifare per questa squadra fa drizzare la schiena, alzare il mento ed essere orgogliosi. Trapani con l’aeroporto deserto, che ha perso parte della propria identità, che cerca disperatamente di appigliarsi a qualcosa e a qualcuno per credere di nuovo in se stessa e nella possibilità che i nostri figli non debbano saltare su un aereo e andare via per sempre. Con i loro sogni scritti sul diario appena qualche mese prima e un bagaglio pieno, zeppo di speranze.
Quel qualcosa e quel qualcuno hanno una forma e un colore. Sono uomini, e loro maglia è di colore granata.
E’ un vessillo che ci porta lontani con la fantasia sin da quando eravamo piccoli e andavamo allo stadio. Da quando, per sapere cosa avesse fatto il Trapani nelle partite esterne, dovevamo aspettare il “Gazzettino di Sicilia”, su Radio 2 (allora si chiamava il secondo canale della radio), alle sette della sera. Come fai a non farti fregare dai ricordi in una vigilia così? Come fai a non pensare a tutto quello che hai vissuto nei tuoi cambiamenti: da bambino a ragazzo, da ragazzo a uomo, sempre con quel comune denominatore di passione dentro di te? Impossibile. Ma non possiamo cadere in questo tranello, proprio nella settimana in cui il presente
fa emozionare più dei ricordi.
Emoziona Vincenzo Italiano, che, a Piacenza, in sala stampa, alla domanda di un giornalista piacentino sulla finale persa dal Trapani contro il Pescara, e sulle successive lacrime di Cosmi, risponde: “Io non parlo di qualcosa che ha fatto piangere lacrime amare ai trapanesi”.
Emoziona Raffele Rubino, e l’abbraccio che mi regala poco prima del fischio d’inizio del “Garilli”. Io puzzo di sudore, sono in giro dalle 4 del mattino lui ha la sua giacca blu d’ordinanza, come si addice a chi fa il suo lavoro. Gli dico “grazie”, e lui mi risponde: “Ehi, grazie di cosa? Ancora non abbiamo vinto niente”.
Emoziona Giovanni Abate, che ci paga, al bar, il conto delle birre pregara: eppure lui beve solo acqua. Sapete cos’è Trapani? Me lo spiega lui. Gli chiedo: “Giovanni, qual è il più bel ricordo che ti porti dentro?”. Lui: “Prima gara in C1, contro il Prato: vinciamo 2-1 ma io sbaglio due o tre gol. A fine partita, i tifosi della curva mi chiamano sotto di loro e io vado. Mi incitano e urlano come se io avessi segnato tre reti. Credo che quel momento sia stato decisivo per la mia avventura a Trapani.”
E’ un vortice di emozioni che ci avvolge e tritura l’anima con le previsioni che dentro di noi si stagliano per indovinare come andrà la gara di sabato.
Emoziona la curva, che letteralmente insegna come si ami il Trapani. Appena finita la partita al “Massimino”, furiosi per quel rigore regalato al Catania ad una manciata di minuti dalla fine, siamo tutti chiusi senza poter uscire.
Siamo distribuiti fra le scale e il cortile antistante il cancello e rimarremo lì una ventina di minuti.
Comincia a rullare un tamburo e la rabbia va via. Quel tamburo ci ricorda che c’è il ritorno e che il futuro è più importante di ciò che abbiamo appena vissuto.
Mi guardo intorno mentre cantiamo: donne, bambini e uomini, vestiti in ogni modo, e tutti sobri (l’unica birra che vendevano era quella analcolica: non un granché, francamente). Mi guardo intorno e siamo più di 400. Tutti sentiamo profondo il senso di appartenenza, nessuno pensa più a quel rigore di Lodi, lo consideriamo un inciampo del destino a cui rimedieremo tre giorni dopo. Le voci rimbalzano, echeggiano, tornano indietro potenti, ci spingono fino a domenica: sentiamo di aver vissuto un mercoledì da leoni.
Ce lo ricordano le facce dei calciatori sotto la curva al triplice fischio. Soprattutto quella di Felice Evacuo, che sente l’avventura come sua, nonostante avesse giocato un pezzetto di partita.
Emoziona questa scintilla che è scoccata, probabilmente dopo quella vittoria col Catanzaro, e quei video girati sul web, con la squadra a cantare “E’ la nord che ce lo chiede… Forza granata”. La scintilla che lega lo spogliatoio al suo interno, e lega anche la squadra con la città. Che trascina tutti quelli che in silenzio stanno continuando a fare il loro lavoro con passione. Nonostante tutto (ed è davvero il caso di dirlo “nonostante tutto”).
Ufficio Stampa, staff medico, tecnico, magazzinieri, segretari. Vorrei nominarli tutti, a uno a uno.
Emoziona Leonardo Fonte, da cui mi divide tutto il possibile in tema di idee politiche e con cui imparo a condividere ogni singolo rivolo di sudore, pre e post gara. Ed emoziona la mia chat di whatsapp “Granatopoli”, fatta da sei tifosi che scrivono giorno e notte tutto quello che viene in mente sul Trapani
Emoziona Stefano Firicano. A Piacenza, lo guardo da lontano, mentre va sotto la curva, a fine gara, a battersi il cuore. E lo incrocio poi fuori dallo stadio: molla subito il dialogo in corso e si dirige verso di me: rimaniamo fermi in un abbraccio che dura dieci secondi. Dieci, interminabili, secondi. In cui scorrono i nostri ricordi,
vissuti insieme: le telecronache fatte insieme in Eccellenza.
“Emozione” è parole che ha un suono che da solo emoziona. Che fa vibrare la parte più intima dell’anima. Quella che tireremo fuori, scorticheremo e metteremo a nudo verso le sette della sera di sabato. Quando ognuno di noi rimarrà solo con se stesso e cercherà di spingere quelle maglie granata verso un’altra emozione. Perché quella che dobbiamo ancora provare è ovviamente la più bella.